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Il 20 di giugno scorso, a Lecce nei Marsi dove era nato, si è inaugurata la Biblioteca Comunale intitolata a Enrico Zampetti (1921-1988); e il gentile invito del figlio Ugo ha fatto riaffiorare i ricordi.
Enrico era approdato in Biblioteca nel 1952, ma non molto dopo l’aveva lasciata (e il dottor Pierangeli, che allora la dirigeva e, considerandola come una compagna di vita, non ne concepiva l’abbandono, non aveva apprezzato) per occuparsi di un Ufficio Stampa che ancora non esisteva in Senato, e che lui inventò, organizzò e diresse col solo aiuto di un leggendario commesso (Achilli), scegliendo gli articoli che l’altro pazientemente incollava su appositi fogli, in una rassegna stampa artigianale da presentare quotidianamente al Presidente, e da distribuire agli Uffici, che continuarono a riceverla per anni, entro la sua inconfondibile copertina di carta grigia.

Ritornò in Biblioteca nel 1971, e cominciò ad occuparsi dei periodici. La Biblioteca era allora un ambiente molto ristretto ed esclusivo, sotto il patriarcale governo del Direttore, che a quel tempo era V. E. Giuntella. Difficile inserirvisi senza traumi per un elemento proveniente comunque dall’esterno, e perfettamente sconosciuto per noi, suoi naturali colleghi (Montorsi, Adriana, Ballanti ed io), che pure lavoravamo a Palazzo Madama già da più di dieci anni. Invece, l’integrazione avvenne con tanta facilità, che non ne ricordo più i modi e i tempi: e la semplice naturalezza con cui avvenne basta da sola ad illustrare il carattere e la personalità dell’uomo, che da subito divenne, più che un normale collega di lavoro, un amico conosciuto da sempre. Secondo la prassi, cominciò a intervenire alle riunioni mattutine per procedere alla scelta degli acquisti, e non soltanto vi contribuì con suggerimenti e proposte rivelatrici della sua competenza professionale, ma riuscì anche a trasformarle in incontri dove la storia e la vita privata di ognuno di noi si intrecciava con i problemi e le esigenze della Biblioteca, bilanciandosi in equilibrio perfetto. In quegli incontri ci raccontò delle sue esperienze di guerra nelle isole greche, e della sua deportazione in Germania come I.M.I. (Internato Militare Italiano), poi magistralmente ricostruite in un volume uscito postumo nel 1992, che riporta la gran parte delle sue note diaristiche redatte durante la prigionia; e poi del suo ritorno a casa e del suo lavoro all’Assemblea Costituente, dove aveva conosciuto giovanissimi i futuri protagonisti della scena politica italiana, da Andreotti a Moro, da La Pira a Leone.
Erano quelli gli anni in cui una nuova disciplina chiamata informatica si stava affacciando nel mondo della cultura, e a Enrico toccò studiarne le eventuali possibilità di applicazione in Biblioteca. Questa nuova tecnica lo affascinava, tanto che gli venne offerta la direzione dell’istituendo servizio informatico del Senato, che lui non si sentì di accettare; accettò soltanto l’incarico di approfondire le eventuali ed effettive possibilità di applicazione delle nuova tecnica alla Biblioteca, perché la sua ben assimilata cultura gli faceva percepire chiaramente i limiti e i rischi che sarebbero derivati a un organismo tanto delicato e complesso dall’applicazione troppo frettolosa e non abbastanza meditata di un sistema ancora praticamente sconosciuto, e non
abbastanza collaudato: e ricordando quella stagione, ritengo doveroso ricordare quanto più tardi si sia rivelata saggia la sua prudenza, e prezioso il suo contributo.
Così rimase saldamente ancorato alla Biblioteca, che tutto sommato costituiva la sua più congeniale collocazione, e di cui si impegnò a tutelare la struttura tradizionale, pur continuando ad approfondire, con marsicana tenacia (lui stesso amava definirsi “un lupo marsicano”, non senza una punta di compiaciuta civetteria) gli aspetti teorici della materia, nella prospettiva di una sua eventuale applicazione al “sistema” biblioteca.
Rimase sette anni con noi, di cui gli ultimi tre come nostro Direttore, e lasciò palazzo Madama nel 1978, fierissimo di aver raggiunto il massimo dell’anzianità grazie ai suoi trascorsi di guerra e di prigionia; ma tornava spesso a trovarci, brandendo come un trofeo la tessera tramviaria (la Magna Charta Libertatum), e raccontandoci i suoi nuovi impegni, tutti rigorosamente gradevoli, finché il male lo colpì, e nel 1988 sopraggiunse la fine.
L’iniziativa del Comune di Lecce nei Marsi, riproponendone ora opportunamente le figura, appare due volte felice, perché per un verso la ricollega alla sua attività di bibliotecario (che è mestiere e non professione, praticabile soltanto da chi come tale lo accetti, grazie a una forma mentale del tutto particolare, che unisce fra loro i bibliotecari in un rapporto esclusivo e specialissimo, non condivisibile dai non addetti ai lavori); e per altro verso perché non soltanto ne ripropone il ricordo a quanti hanno scritto con lui un capitolo della propria vita, che egli arricchì con la sua umana e rassicurante saggezza, distribuita senza risparmio e senza enfasi, con bonaria e inalterabile familiarità, ma ne fissa anche la memoria mediante la testimonianza del suo percorso umano, frammento di una cronaca quotidiana destinata inesorabilmente col tempo a diventare storia.


Maria Teresa Bonadonna Russo